È possibile resistere alla tentazione di vedere il primo film italiano in cui il Life Coach è il protagonista principale? Io ho ceduto alla tentazione. Addirittura sono andata il giorno stesso dell’uscita nelle sale. Mi sono seduta con una buona dose di curiosità, scetticismo e disincanto. “…E vediamoci il filmetto che mostrerà cosa non è il life coach, comunicando che invece è proprio lui il life coach”.

Le prime scene hanno soddisfatto le aspettative. Il life coach è un tipo scaltro, un abile one man-show con atteggiamenti da guru, che sbeffeggia una platea di persone ansiose di realizzare il loro desiderio di successo. Sceglierà come clienti solo tre individui tra tutti e proprio coloro per i quali il successo significa raggiungere un obiettivo di vita concreto per realizzare un po’ più di sé stessi. Ehi! Finalmente un elemento reale. Il coaching facilita l’autorealizzazione, ma il pubblico sarà in grado di cogliere questa sottigliezza?

Il life Coach, Giovanni Canton, inizia la sua attività di “coaching” disegnando schemi, grafici, dando lezioni sulle più elementari tecniche di Programmazione Neurolinguistica. Il tutto con lo scopo di costruire un alter ego, che lui stesso ha scelto per ciascun cliente; perché lui sa più dei suoi coachee e soprattutto conosce ciò di cui hanno bisogno. Io comincio a sentire i primi sintomi di un’orticaria probabilmente di origine psicosomatica. Sono certa che si tratti di orticaria psicosomatica quando Canton mostra la sua “competenza coaching” in Comunicazione Diretta dicendo alla sua cliente più recalcitrante “Matilde decidi. O fai come dico io oppure ti mollo.” Il pubblico, a questo punto, cosa avrà compreso dei reali benefici del coaching?

Grazie alle indicazioni ed allenamenti prescritti dal sedicente coach, il trio dei coachee comincia a realizzare i propri obiettivi, ma per due di loro la soddisfazione ed il benessere raggiunto sono incompleti. Non erano preparati a pagare un prezzo inaspettato, in termini personali o meglio non avevano piena consapevolezza di ciò che realmente volevano ottenere per sé stessi. L’unica che realizza completamente il suo obiettivo di autorealizzazione è proprio Matilde, la recalcitrante, il caso senza speranza. Quindi il coaching funziona! Certo! Non grazie, però, alle competenze coaching di Giovanni Canton. Gli eventi stimolano Matilde ad avere fiducia in sé stessa, a comprendere chi vuole essere e ad assumersi la responsabilità di decidere cosa fare per sé stessa e come realizzarlo. Esattamente ciò che il coaching si propone di facilitare e stimolare. Esattamente ciò per cui i coach professionisti studiano e si formano e vi assicuro che l’impegno richiesto non è indifferente.

Matilde decide di interrompere il “coaching” e lascia al suo coach una lettera in cui, usando un linguaggio che ricorda quello che userebbe un buon life coach, stimola in lui  una nuova consapevolezza, formulando persino una “domanda potente”, “qual è il tuo reale desiderio?

Mi devo ricredere, quindi? “Le leggi del desiderio” è veramente un film sul life coaching?!

Forse il mio ottimismo e identità di coach professionista influenzano la mia interpretazione. Forse anche il pubblico coglierà in controluce la reale essenza del coaching. Sono certa che dovrà impegnarsi molto per farlo, come sono certa che il film rappresenta un’opportunità per divulgare la nostra professione, e sono altrettanto sicura che non è vero il detto “non importa che se ne parli  male purché se ne parli”.

Se nell’immaginario comune si identifica il life coach con la figura del motivatore entusiasta per definizione, che elargisce conoscenze più o meno onestamente, probabilmente qualche responsabilità l’avrà anche il mondo del coaching professionale. Il film chiama noi coach professionisti a diffondere ancor di più il coaching nell’opinione pubblica, ma facciamolo con messaggi corretti e mostrando la nostra professionalità ed etica pur mantenendo il proprio stile e approccio metodologico.
Io non sono né mi sento Giovanni Canton.

 

Michela Alunni