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Dopo anni passati ad occuparci dell’integrazione donne/uomini nel luogo di lavoro, ci siamo resi conto che se ci sono altre due categorie che veramente hanno difficoltà a relazionarsi sono i Gen X e i Millennials. Colleghi di diverso genere ma della stessa generazione possono facilmente “allearsi”, comunicare allo stesso livello e molto probabilmente avranno le stesse aspettative dalla propria professione.

Non dico con ciò che il trattamento, quello economico ad esempio, sia allineato completamente fra uomini e donne e che tutti i problemi siano risolti, tutt’altro. Le disparità di trattamento economico continuano ad essere ad esempio un tema scottante e il tema di diversity di genere deve continuare ad essere trattato con determinazione.

Mentre però ci preoccupavamo di creare comprensione e integrazione in azienda fra il genere femminile e quello maschile, cercando di trovare modelli di leadership che si adattassero, una generazione drammaticamente diversa da quella precedente si “insediava”, cresceva e dettava delle regole nuove.

Essere consapevoli di come le generazioni forgiano i comportamenti, influenzano le aspettative e rendono le aziende più o meno attraenti, è il primo passaggio per poter creare un ambiente al passo con i tempi e accertarsi non solo che il clima aziendale sia positivo, ma anche che i nuovi talenti trovino ciò che stanno cercando. In altre parole, per sopravvivere nel futuro.

Ogni generazione nell’osservare la successiva ha avuto nella storia un atteggiamento critico, ogni cambiamento nei valori e nell’approccio alla vita e al lavoro genera inevitabilmente un rifiuto, accompagnato da un approccio nostalgico per “i nostri tempi” “tanto più sani” dalla generazione precedente e una rivendicazione di “modernità” da parte di quella emergente.

Se però le varie generazioni fino al 1980 si sono succedute con minime turbolenze, per lo più legate alle ideologie politiche e filosofiche, dal 1980 assistiamo ad una rivoluzione che impatta i comportamenti di base, le interazioni umane, un cambiamento che non ha precedenti.

L’avvento della tecnologia nella vita quotidiana.

Tecnologia che trasforma l’interazione con le cose, le persone, le attività, non più come mezzo per ottenere un risultato ma come funzione in quanto tale.

I digital natives, ovvero coloro che sono nati in un mondo tecnologico; venuti al mondo con le dita che sanno già alla nascita “scrollare”, ci propongono un modello del mondo apparentemente simile se scindiamo il device tecnologico dalla persona, se consideriamo un ragazzo di 15 anni oggi come un ragazzo con uno smart phone siamo in errore: un ragazzo di 15 anni è un ragazzo “connesso” sempre, ovunque.

Essere connessi cambia l’approccio alle relazioni, al lavoro, alla distinzione fra lavoro e tempo libero, essere connessi è un modo di essere.

Essere connessi è un’esperienza di ampliamento della percezione, rappresenta la possibilità di essere contestualmente qui e altrove, di passare con velocità da un’attività all’altra, di ottenere in tempo reale tutte le informazioni che si desiderano.

La rivoluzione è già iniziata, nel 2020 i millenials rappresenteranno il 35% del totale forza lavoro, in ruoli non solo di staff, ma di leadership e direzione, ignorare questo fattore significa ipotecare il futuro dell’azienda.

Di generazioni si parla in modo strutturato dal 1991 quando Strauss e Howe pubblicarono il libro Generation: la storia del futuro dell’America, 1584 al 2069 (1) coniando così il termine.

Secondo la loro teoria ogni 80 anni nella storia americana si sarebbe verificato un “fourth turnig” generazionale, causato o caratterizzato da una crisi che avrebbe distrutto un ordine sociale per crearne un altro.

Seguendo questa teoria gli stati uniti, e conseguentemente l’Europa visto l’allineamento socioculturale avvenuto nell’ultimo 50ennio , si troverebbero nei prossimi venti anni nel pieno del “fourth tuning”, ovvero nel pieno di una rivoluzione generazionale.

Le generazioni sono altresì influenzate dalla crescita demografica a sua volta influenzata alla crescita economica; quindi, nella storia dell’umanità se facciamo un parallelo con la crescita demografica e il suo tasso di incremento, abbiamo un’accelerazione progressiva di cambiamento generazionale.

I programmi di diversity all’interno delle aziende mirano ad ottenere l’inclusione di diverse categorie, siano esse legate al genere, all’orientamento religioso o sessuale, in modo da garantire che ogni persona abbia le stesse opportunità e si senta “accolta” dalla cultura aziendale.

Questo implica quindi che delle differenze siano intrinseche nelle categorie trattate, alcune molto evidenti ovviamente, pensiamo al genere, altre meno palesi o completamente riservate alla sfera personale come ad esempio l’orientamento sessuale. Non di meno, la possibilità di ottenere a livello aziendale gli stessi privilegi di una coppia eterosessuale, viene riconosciuto da alcune aziende come un diritto del lavoratore a prescindere dalle leggi del paese in cui l’azienda opera.

La diversity generazionale però è più complessa, apparentemente non esistono differenze individuabili con facilità.

Quello che ci separa non è soltanto l’anno di nascita, ma il modo profondo in cui conosciamo il mondo, le nostre aspettative, i nostri valori, ciò che crediamo.

È una diversità invisibile.

E in questo specifico caso, non esiste una categoria più “svantaggiata” o “diversa” da ciò che viene considerata la norma. Siamo reciprocamente diversi, non ci comprendiamo a fondo, ci aspettiamo che l’altro sia come noi, ci stupiamo che non lo sia.

In sintesi non ci capiamo.

Per via della velocità sopracitata dei passaggi generazionali, in questo momento nelle aziende coesistono fino a tre generazioni, a breve forse anche quattro; le nuove strutture organizzative che richiedono un ingente lavoro di team mettono a dura prova questa coabitazione, imponendo alle aziende e alle persone che in esse lavorano di prenderne atto, gestirle, valorizzarle.

Il primo passaggio per fare ciò è comprendere in cosa siamo diversi. Poi dobbiamo porci il problema di rivedere il modo in cui gestiamo i colloqui di carriera, le conversazioni e le altre leve motivazionali, il modo in cui gestiamo i feedback, i paradigmi, le metafore, insomma dobbiamo “riprogrammarci” per gestire questa grande sfida, questa nuova frontiera della diversity.