La musica jazz è un fenomeno complesso, una delle sue peculiarità è quella di dare ampio spazio alla cosiddetta improvvisazione. Cosa significhi improvvisare ha tentato di spiegarlo, fra gli altri, il filosofo Davide Spaltri:“…possiamo iniziare distinguendo tra composizione (la musica come prodotto di scrittura) e improvvisazione, pratica anomala situata tra composizione ed esecuzione. (…)

La distinzione fra composizione e improvvisazione può essere ricondotta a due forme di creatività, quella orientata al prodotto (un quadro, una scultura, una partitura, ossia un prodotto finito che può essere esaminato e riesaminato a piacere) e quella che si risolve in processo (in cui il processo è il prodotto, un prodotto destinato a elidersi mentre si manifesta. (…)

Potremmo anche dire che chi compone crea musica “in riposo” mentre chi improvvisa crea musica “in movimento”. Wynton Marsalis è molto più viscerale ed immediato nel suo modo di riferirsi all’improvvisazione: ”Il jazz ti parla del potere di adesso. Non c’è sceneggiatura, è conversazione. L’emozione te la danno i musicisti quando devono prendere una decisione immediata per soddisfare quello che a loro avviso l’istante richiede.”

Non va tra l’altro dimenticato che questa creazione immediata, avviene molto spesso in un contesto d’insieme, in team, vale a dire con altri musicisti che dovranno cercare e trovare un’armonia tra chi improvvisa e che, improvvisando anch’egli, accompagna. La decisione viene presa sul momento, partendo dalla propria percezione, la propria sensibilità ma senza trascurare le esigenze degli altri e, soprattutto quelle dell’insieme.

Spesso i musicisti seguono un andamento circolare e sequenziale: si improvvisa a turno seguendo un ordine prestabilito, altre volte, soprattutto nel jazz contemporaneo, i varisolisi intrecciano o si susseguono con andamenti più complessi e imprevedibili. Insomma questa storia dell’improvvisazione rappresenta davvero una grande sfida e non solo per chi suona.

Anche chi ascolta viene ingaggiato sebbene ad un livello completamente diverso. Non vi è la possibilità di essere cullato da melodie ben conosciute e di godere del piacere di “riconoscere”. Sappiamo bene quanto sia piacevole ascoltare un brano familiare e quanto l’ascolto ripetuto ci permetta di aumentare il piacere. Questo rapporto, nell’ascolto della musica jazz viene modificato.

È come ascoltare favole conosciute ma che evolvono ogni volta in nuovi sviluppi, più o meno imprevedibili. Improvvisare significa per chiunque vi si cimenti qualcosa di diverso, di unico. In questo aspetto si ravvisano delle somiglianze con la comunicazione in genere. Abbiamo più persone che si confrontano, si integrano, si contrastano, si completano l’un altra.

Un musicista può tendere a sopraffare l’altro, a metterlo in difficoltà: qualcosa del genere avveniva talvolta in modo esplicito e voluto, nelle performance del genere bebop, negli anni 30. Arrigo Polillo racconta a tal proposito (Storia del jazz) che Bud Powell, Charlie Parker, Dizzy Gilliespie e gli altri pionieri del bebop si divertissero a comporre brani complicati ed a eseguirli a velocità folli per dissuadere i musicisti che si proponevano nelle interminabili jam session, serate di club dedicate all’improvvisazione in cui tutti potevano suonare.

Ma il nostro musicista può tendere invece a sostenere il collega e ad esaltarne le virtù. Potremmo parafrasare Watzlawich azzardando che per un jazzista “è impossibile non improvvisare”. Resta da vedere come lo farà; cosa riuscirà a trasmettere, se si concentrerà su se stesso, sul messaggio o sul ricevente (l’ascoltatore ma anche e ancor prima gli altri musicisti che suonano con lui), se cercherà di far arrivare la sua bravura, la sua ricerca stilistica e tecnica o se mirerà al cuore di tutti coloro che sono coinvolti.

Se esprimerà una dimensione solipsistica cercando dei gregari nel resto della band o se cercherà l’espressione del team e si metterà al suo servizio. Se proverà a trovare una sintesi tra questi diversi approcci. Tutto ciò a me sembra richiamare il significato più profondo del termine ascolto, o meglio ancora del verbo ascoltare (preferisco usare i verbi che evocano il vero senso di processo piuttosto che le nominalizzazioni che ne esprimono la cristallizzazione). Ascoltare significa, come spiega Watzlawich, impegnarsi su due livelli complementari: quello della trasmissione biunivoca di informazioni e quello della costruzione, del mantenimento e dell’evoluzione del la relazione.

Significa far sapere agli altri cosa desideriamo ottenere ed in che modo e far sapere altresì cosa proviamo, cosa pensiamo di loro, cosa pensiamo loro pensino di noi e via discorrendo. Per farlo dobbiamo districarci in un dedalo di idee preconcette (inevitabili ma discutibili), valori e interessi contrastanti, codici a volte incomprensibili. Solo ponendoci in una posizione di ricerca di intenti e significati condivisibili possiamo sperare di raggiungere gli obiettivi della comunicazione (che di solito coincidono con quelli degli altri aspetti della vita).

Come in un team sportivo o aziendale, un gruppo jazz dialoga a diversi livelli: ad un livello interno dialoga con gli altri musicisti, ognuno ha un suo spazio privilegiato, quello appunto dell’assolo, in cui ha un certo numero di secondi o minuti per esprimere qualcosa di particolare. Ma prima e dopo di allora contribuisce a tessere quella struttura di armonie e ritmica che sorregge il brano stesso. Non solo: all’interno del suo stesso fraseggio si inseriscono altre voci, altri strumenti che di volte in volta fanno da contrappunto, da integrazione armonica, da sostegno al canto del solista.

A volte le sue “parole” vengono riprese e riproposte dai compagni che le ripetono tali e quali per rinforzarne l’effetto, come per dire “siamo d’accordo e ci piace”, oppure le modificano esaltandone così la forza espressiva e generativa, come a dimostrare che un buona idea può essere comunicata e sviluppata, implementata potremmo dire, in innumerevoli modi.

Anche a livello ritmico avvengono cose che vale la pena di esplorare. Il tempo è importante e costituisce contemporaneamente la cornice e la risorsa primaria (è possibile fare musica anche solo con una base ritmica percussiva). Tutti devono andare insieme eppure ognuno esprime il ritmo a modo suo. La batteria deve stare bella “seduta”, “quadrata” come si dice in gergo, fornendo un sostegno solido a tutti; Il contrabbasso tende ad “andare avanti”, anticipa, esplora il territorio e “tira” gli altri, il piano tende a restare indietro, quasi nelle retroguardie eppure è parte integrante e fondamentale della sezione ritmica. Tutto ciò crea il cosiddetto swing.

Insomma ognuno con le sue caratteristiche, la sua unicità, ma tutti insieme. E tutti riconoscono le sue qualità e peculiarità, nessuno chiede agli altri di suonare “come me”, il valore della diversità è realmente riconosciuto. Ad un altro livello, forse più vicino all’idea di prodotto, il gruppo dialoga con il pubblico che a sua volta costituisce un insieme ed una serie di individualità.

Il pubblico può essere pensato come il cliente o come l’avversario della band. E la band vorrà sopraffarlo e deliziarlo nello stesso tempo esattamente come un team aziendale desidera fare con i propri clienti, con gli altri dipartimenti e con la concorrenza. E gli spettatori rispondono come collettivo (l’applauso che accoglie la fine del solo o il suo clou) e come singoli individui, recependo e capendo (o non capendo) a seconda delle proprie sensibilità e cultura. A volte queste si incontrano, altre no. Ai tempi delle prime avanguardie del free jazz, i frequentatori dei club uscivano a consumare in strada i propri drink aspettando che i musicisti finissero di suonare!

Ma per questi pionieri era più importante dire quello che avevano da dire piuttosto che avere successo ripetendo ciò che era già stato detto. Allo stesso modo un team o un’organizzazione possono porsi in rapporto con i propri interlocutori partendo da una posizione di antagonismo (pensiamo all’espressione “aggredire il mercato”) o di servizio. E questo sia verso l’esterno, il mercato, che verso l’interno, i colleghi, le altre funzioni. Nel libro La leadership tribale (Fischer e altri) (del quale ho curato l’edizione italiana), vengono riportati i risultati di un’indagine realizzata dalla Southern California University secondo la quale le organizzazioni vedono nel passaggio da una visione competitiva e di ricerca della supremazia ad una di servizio e di ricerca dell’eccellenza, il momento decisivo della propria evoluzione.

Quelle che ci riescono producono risultati straordinari e esprimono in pieno la propria missione. Non dimentichiamo che gli statement con i quali le aziende raccontano la propria missione contengono o dovrebbero contenere la risposta alle domanda: “in che modo siamo utili a clienti, dipendenti, fornitori ed azionisti (o più sinteticamente a tutti gli stakeholders)? È la (ormai) vecchia catena del valore, vecchia per teorizzazione ma più che mai valida quanto ancora dura da capire e ancor più da assimilare e realizzare.

Eppure non se ne può prescindere, esattamente come in un quintetto o un sestetto jazz, è richiesto alle organizzazioni di esprimere il giusto grado di flessibilità e di rigidità. È il concetto di tensegrità espresso in architettura e ripreso da Carlos Castaneda. Un altro aspetto importante e per certi versi drammatico riguarda il modo in cui un musicista, soprattutto nel momento dell’improvvisazione cerchi di esprimere con esso la propria identità e sia nel contempo costretto a negarla, o meglio a superarla (o ancora a rimandarne il consolidamento).

Certo perché ad un improvvisatore è richiesto di fare sempre qualcosa di nuovo e inaspettato. Nelle parole del trombettista Lester Bowie: “…cerchiamo sempre di essere creativi. Lasciamo che a guidare sia la musica… Non sappiamo proprio come andranno le cose.” Questo genera un paradosso o come direbbe Gregory Bateson (concetto ripreso dallo stesso Sparti) un doppio vincolo: la necessità di esprimere se stessi attraverso qualcosa che però nelle proprie ed altrui aspettative debba essere sempre nuovo e diverso. L’ascoltatore vuole riconoscere il musicista ma al contempo vuole da lui cose nuove.

Il jazzista (Ellison riportato da Sparti) deve perdere la sua identità anche mentre la trova. Il jazzista (continua Sparti) che improvvisa corre due rischi. Il primo è quello di fallire nel trovare l’originalità, ossia il rischio della stagnazione […]. Il secondo è quello di smarrirsi nel perseguire la ricerca di qualcosa di nuovo e irripetibile […].Il jazzista è esposto ad un doppio vincolo: se asseconda la norma dell’originalità, differendo il compimento della propria identità musicale […] contraddice quella dell’intelligibilità.

È il rischio che corre, solo per fare un esempio, colui che subentra alla guida di un team preesistente e cerca di affermarsi stravolgendone gli equilibri, le modalità, le prassi, a volte gli obiettivi. Con le conseguenze che conosciamo. E la soluzione? Non esiste. Ancora una volta non è in una ricetta preconfezionata che si risolve il problema, bensì nella capacità di stare nella contraddizione, nel paradosso. Ancora, è la capacità di lavorare in team che spesso risolve le tensioni. La capacità di non innamorarsi delle proprie idee, di superare i personalismi e di puntare ad un risultato che non sia il proprio ma quello più conforme agli obiettivi ed alle necessità contingenti o future.

D’altra parte improvvisare richiede il rispetto delle regole e nel contempo la ricerca del limite da superare (non fare ciò che sai fare cerca di fare qualcosa di più) e questo espone necessariamente a molteplici rischi: sbagliare, non essere compreso, affrontare conflitti, dover investire molto tempo nella comunicazione e nella negoziazione.

Ed è per questo che improvvisare richiede una lunga ed impegnativa preparazione: il jazzista trascorre anni ascoltando e trascrivendo pazientemente soli di altri musicisti, acquisendone lo stile, riproducendo e riflettendo sulle singole note, sequenze di note, figure ritmiche. E poi armonia, scale di ogni tipo e provenienza etnica, trasposizione in tutte le tonalità e via così. Insomma sembrerebbe di essere di fronte ad una grande contraddizione: improvvisare richiede un’accurata preparazione.

Ma non è la sola, il jazz è proprio terra di confine dove l’eccezione è regola ed il paradosso è onnipresente: per imporre il proprio stile bisogna essere pronti ad abbandonarlo costantemente, per farsi ascoltare bisogna suonare più piano ed ascoltare gli altri, per dare forza alle proprie idee bisogna valorizzare quelle dei compagni, quando qualcosa funziona è il momento di cambiare! Ma questi paradossi come tutti sappiamo sono delle costanti della vita quotidiana, probabilmente esasperate nei vari contesti aziendali. C’è però una differenza importante: nel micro mondo del jazz essi sono accettati e risolti se non completamente almeno in buona parte, mentre nelle organizzazioni si continua ad ascoltare l’odioso refrain: “è un problema di comunicazione” il che purtroppo sembra spesso sottintendere “privo di soluzione” o peggio ancora qualcosa su cui sorvolare, un problema da non affrontare affatto. Ma un problema che non viene affrontato di solito si ripresenta in forma sempre più cristallizzata e perciò difficile da rimuovere. Il jazz potrebbe essere un luogo dove apprendere la flessibilità, l’ascolto, il lavoro di squadra, la disponibilità al cambiamento. Cose di cui abbiamo bisogno nella nostra vita quotidiana.

Bruno Benouski – Partner Fedro